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Amiamo
le storie.
Le creature umane amano le storie. Ne hanno bisogno. Ne restano incantate.
Per ogni individuo, ogni storia può rivestire un valore prezioso,
perché forse proprio quella storia che ora gli sta capitando di
leggere, ascoltare o vedere, parla esattamente della sua storia, della
sua propria esperienza.
La
vita è rotta, frammentata, sconnessa. Incespica, procede per piccoli
e grandi disastri, ci lascia senza fiato, lacrime, ancora più spesso
senza parole.
In una storia si può ritrovare di nuovo un senso, un motivo, un
nesso coerente. Le angosce, i dolori, la solitudine, finalmente trovano
appoggio nelle parole, per essere compresi, detti, comunicati. Ma anche
i nostri sogni, le nostre speranze vogliono essere narrate. Solo quando
le parole si dispiegano vengono tracciati finalmente il contorno del mondo
e i confini della nostra esperienza fugace.
Le
Storie ci uniscono.
Racconti
provenienti da secoli lontani talvolta, nelle chiuse oscurità delle
vite presenti, dischiudono orizzonti mai prima nemmeno lontanamente immaginati.
Le storie risuonano sempre di echi diversi, poiché la materia in
cui esse si propagano è fatta delle anime dei viventi, che mutano
perennemente, senza mai ritornare, così come la loro esperienza.
Parole,
ma anche immagini, gesti, suoni, hanno lo straordinario potere di riflettere
per ogni persona un frammento diverso dell’universo, corrispondente
esattamente al proprio particolare angolo di visuale. In questa possibilità
di rifletterci contemporaneamente nelle stesse storie, noi ritroviamo
il nostro essere politici, il nostro formare comunità. La comunità
si estingue quando non c’è più storia condivisa. Eppure
non è tanto la condivisione dei racconti ad unirci, quanto piuttosto
l’amore istintivo di ogni essere umano per la narrazione che ci
affratella davvero.
Le
storie ci scelgono.
Così desiderosi, così bramosi ne siamo, che quasi ogni storia
funge allo scopo. Siamo fatti di storie, senza non vivremmo che un vuoto,
angoscioso stupore. Ecco perché di solito le storie non si scelgono,
ma ci scelgono. Esse ci si parano innanzi, e il mondo prende per noi quella
forma.
Nelle comunità arcaiche germinavano da una generazione all’altra,
e si gonfiavano di leggende. Così sono nati saperi, superstizioni,
la scienza stessa del mondo. Ed ancora quel bisogno resta inevaso, poiché
niente altro può illuminarci le strade della vita presente. L’umanità
non esisterebbe così com’è senza la trasmissione del
suo sapere da una generazione all’altra. Per questo siamo così
aperti ad ogni narrazione: ne va della nostra stessa essenza. L’umanità
nasce disposta a credere a quello che le raccontano.
Chi narra?
Sarebbe bene, dunque, considerare da quali storie ci facciamo narrare.
Bisogna tener conto che questo amore primario incontra interessati cantori.
La nostra visione cambia a seconda di chi ce la narra. Ad esempio, c’è
chi ce la racconta per i propri personali interessi. Niente è più
facile di far credere a chi non sa quello che noi vogliamo fargli sapere.
Pasolini lanciava il suo allarme. Le storie arcaiche dei vecchi, specchio
rozzo ma possente di comunità contadine, chiuse, serrate per secoli
ma unite da una loro endogena narrazione, sono state sterminate. Ora,
come il grande poeta temeva, alla grande maggioranza delle popolazioni
non resta che la narrazione iper-controllata dei mass media, che ha spesso
l’unico intento di difendere la struttura simbolico-gerarchica delle
classi dominanti. È nel controllo dell’informazione che sostanzialmente
si svolgono gli attuali scontri tra poteri antagonisti. I saperi sono
filtrati al millesimo, e trasuda per i più soltanto una storia
complessivamente semplificata e grottesca, che promuove istinti rozzi
e animaleschi.
Il
mondo narrato dalla pubblicità.
Nei media la riflessione, la sospensione del giudizio, la delicatezza,
la cura, sono banditi. Via ogni indulgenza verso la debolezza, l’inadeguatezza,
la mancanza di spirito, la mancanza di coraggio. Estinti, nei modelli
proposti, le problematiche affettive di dubbia risoluzione, la malattia
grave, la malattia mentale, l’incedere ineluttabile del tempo, la
formazione perenne del dubbio, l’incostanza, la perdita della speranza.
Come se l’umanità attuale avesse risolto ogni incrinatura
della propria natura, e tutto fosse risolvibile con qualche buona nozione
e molta spregiudicatezza.
Via
libera allora alla condiscendenza verso le tendenze umane più grevi
e violente, come il sapersi imporre sugli altri con ogni mezzo, l’esercizio
del predominio, l’ostentazione dei traguardi raggiunti, lo sberleffo
sul debole, l’approvazione del prevaricatore, del furbo, del blitz
militaresco.Largo spazio all’esaltazione ferina degli appetiti sessuali
soprattutto del maschio, con la donna ed il suo intero universo spesso
ridotti a pura iconcina sexy.
E
quindi ovunque, infarcita nel tutto, come presagiva Fellini, una continua,
inarrestabile profusione di messaggi pubblicitari, che spingono a trovare
nel consumo i rimedi ad ogni nostra esigenza. Quali esigenze poi? Quelle
che essi ci raccontano: i batteri annidati nel cesso, il parcheggio, la
merendina.
La
teoria dei bisogni indotti non trova più critici, tutto è
permesso. Le tecniche della comunicazione, della poesia, sono poste interamente
al servizio di aziende che producono ogni sorta di merce. Non sarà
mai denunciata abbastanza la schiavitù dorata a cui è sottoposta
oggettivamente la gran parte delle intelligenze creative del nostro tempo
nell'ambito dei vari studi grafici e pubblicitari. Ogni innovazione semantica,
ogni spunto di riflessione, sono destinati all'oblio se non trovano un
lesto impiego nel promo da confezionare entro il weekend.
Anche
sull’opera d’arte propriamente detta il mercato ha assunto
da tempo il dominio. Non solo per il suo schiacciante potere nell’ambito
dei propri irreggimentati canali di diffusione. Ma, qualora la narrazione
li superasse indenne (cosa di per sé già difficile da immaginare),
essa si troverebbe comunque successivamente a fare i conti con la struttura
puramente celebrativa della merce delle società attuali.
Lo
sfregio dei sentimenti.
Basti pensare alla violenza inaudita a cui vengono sottoposti impunemente
gli spettatori durante le visioni dei film trasmessi dal mezzo televisivo.
Il conseguimento del climax, meticolosamente costruito dall’artista
mediante la struttura narrativa con l’unico scopo di comunicare
un pensiero, un’idea, una storia appunto, viene ogni volta brutalmente
interrotto proprio al suo apice, ora per pubblicizzare una gomma da masticare,
ora un whisky d’annata, ora un’auto sportiva. E senza che
questo ormai desti il benché minimo scalpore.
Uno dei sistemi più popolari per diffondere storie e suscitare
sentimenti è insomma militarmente presidiato dalla produzione industriale,
senza che nessuno osi segnalare la gravità delle conseguenze che
tale pratica produce sulla interiorità emotiva. Si viene colpiti
al colmo della commozione continuamente e il sentimento viene infine,
sistematicamente, dirottato sugli obiettivi prefissati dai pacchetti previsti
di spot.
Di
fatto il sentimento viene coattivamente negato. In termini psicoanalitici,
esso viene occultamente spostato. Si esercita sulla psiche abbandonata
all’incanto di una storia una serie di traumi furtivi, che vengono
subitamente rimossi dai prodotti pubblicizzati. Per mezzo di quei traumi
metodicamente ripetuti fino all’esasperazione (controllata: si calcola
l’esatta quantità di spot che si devono subire perché
la memoria del prodotto resti fissata il più a lungo nel tempo)
essi confidano che, nella ferita slabbrata del sentimento appena destato
dalla storia, quando ancora siamo aperti e commossi verso la narrazione
precedente, si innesti un tappo di detersivo, resti infissa una stanghetta
d’occhiale, si disfi una briciola di biscotto. Qui non siamo più
a livelli di sublimine, qui siamo allo stupro di massa previa narcosi
emotiva. Quali uomini e donne possono nascere da simili pratiche? Che
genere di schiavitù vengono coltivate mediante queste sevizie?
C’è qualcuno che se lo chiede? Quali orrende devianze dell’anima
possono scaturire da questa opacizzazione dell’emotività
così tenacemente perseguita?
I
Mostri.
In definitiva, un bisogno primario, essenziale, della natura umana, viene
drammaticamente violentato per favorire gli interessi economici di alcuni
sparuti individui, che non conoscono vergogna né scrupolo. Essi
non posseggono il dono dell’appartenenza, della condivisione e della
fratellanza. Essi non partecipano di una visione ideale. Il loro mondo
è fatto di interessi meschini, privilegi inauditi, inaccettabili
soprusi, orrendi delitti nemmeno più annoverati. Sono i rappresentanti
di una umanità desentimentalizzata, prede di una avidità
primitiva, che per primi hanno subito lo scempio della loro capacità
di amare e immedesimarsi.
Ladri
di Storia.
In questo scenario viene commesso il peggiore delitto di tutti, quello
che nemmeno si nota, il delitto assente. È il furto della Storia,
del racconto minuto delle nostre flebili vite. Esso viene sostituito,
nella rappresentazione proposta dai media, da orrendi pupazzi, sempre
pronti a sorridere, divertire, ammiccare. Sempre intenti a offendere o
rimuovere l’innocenza, l’inadeguatezza, l’incapacità.
Mentre chi avrebbe la capacità di narrare, chi possiede le informazioni
sul presente che scorre, si guarda bene dal divulgarle. Se si escludono
piccoli scampoli, inezie di frammenti, relegati nelle pieghe più
oscure dei palinsesti (dove persino allora si trova il modo di infarcirli
di reclame ottimiste, negazioniste) la maggioranza di chi raccoglie informazioni
usa il proprio sapere solo come strumento di ricatto per i propri scopi
privati. I giornalisti venduti sono i peggiori servi del potere, perché
commettono un furto che cancella il delitto.
Defraudando
le popolazioni delle informazioni di cui essi sono venuti in possesso,
le condannano ad ulteriori decenni di schiavitù, perché
le privano di una storia comune, della narrazione stessa delle loro vite.
Come se si vivesse, tutto sommato, invano. Che altro resta dell’uomo
senza la sua Storia? Ad esempio, ed è il caso più eclatante,
tra cinquant’anni, sarà impossibile ricostruire la catena
dei soprusi commessi dalla classe politica sul territorio del Mezzogiorno
(e non solo), perché non esisteranno più documenti, prove,
indizi, che invece sarebbero dovuti essere raccolti, diffusi, gridati,
dai sedicenti giornalisti. Essi in realtà li posseggono, ma, pavidi
e subdoli complici del potere – che spiano con occhi invidiosi –
si guardano bene dal divulgarli, come fosse il loro unico, privato tesoro,
la loro unica chance di raccogliere le briciole al banchetto immondo che
invece dovrebbero denunciare.
La
Pazzia.
Ecco come ci riducono. A trascinare come morti viventi le nostre vite
in penombra, che mai nemmeno lontanamente potranno brillare delle luci
che i racconti ipertrofici della pubblicità emanano per accecare.
Se nessuno si prende la briga di narrare delle nostre incertezze, dei
nostri ritmi lenti, modesti; dei nostri fallimenti, delle nostre mediocri
paure, dei nostri dubbi senza importanza, della nostra inesperienza, dei
nostri opachi travagli; se nemmeno dei soprusi più lampanti e macroscopici
serberemo il ricordo, che ne sarà di noi?
Sembrerebbe che, per recuperare almeno l’eco delle nostre emozioni
perdute, non ci resti che scivolare attoniti tra le corsie degli ipermercati,
penosa imitazione di quei centri storici ormai svuotati da quegli stessi
ipermercati. Spesso, a chi vive semplicemente la pesantezza del vivere,
non resta che lo sprofondo nella depressione, tanto più aggravata
dalla sua negazione imperante.
È
così che il vicinato si ammala, diventa pestilente, mentre marcisce
nelle sue malattie innominate. A chi vive la vita senza più racconto
non resta che il grido spezzato, la disarticolata violenza della crudeltà
e del risentimento, dove finalmente prendono forma soltanto le storie
orrende delle reciproche paranoie, in cui ognuno è all’altro
nemico, in una esponenziale sequenza di eccidi, prima solo allucinati,
e poi sempre più spesso messi in pratica. Si incomincia con il
portare la follia della guerra nelle terre degli estranei, degli altri,
quelli che le storie le hanno da sempre avute diverse; poi via via l’eco
dell’orrore si fa più vicino, fino a esplodere nel portico
sotto casa, tra i banchi colorati delle conserve alimentari nei supermercati,
sul nostro pianerottolo, nelle nostre cucine, nei letti dei figli bambini.
Un
lavoro per l’arte, una dedica alla follia.
Ecco
dunque un buon compito per l’arte: ritornare a narrare le nostre
vite presenti, le nostre affettuose miserie, per cercare di rendere un
minimo di senso a queste vite che si disperdono come stracci nella tempesta
senza più il peso dell’angoscia finalmente vissuta e narrata,
senza più l’ombra dei nostri stessi pensieri. L’arte
sostiene che la devianza, l’alterazione, la disfunzione sono la
norma. E che con questa parola si indica solo un valore medio astratto,
puramente statistico dell’esperienza reale. L'arte dimostra, con
il suo misterioso e perenne mutare, che in ultimo la norma non esiste.
Essa (insieme alla sensibilità estetica in generale) sembra quasi
il sistema che la specie homo utilizza per adattarsi ed affrontare i cambiamenti
e gli imprevisti (tragici, comici, felici ecc.). La complessa gamma dei
sentimenti umani trova nell’arte il suo più completo dispiegamento,
diventandone in pratica una immensa enciclopedia. È la storia dell’anima,
che nell’arte si rivela. Saperla apprezzare ci educa all’esperienza
interiore, ci rende edotti sulle profondità di Anima stessa, sul
suo dolore, le sue avventure, i suoi panorami, le sue visioni.
L’arte,
o almeno una parte della sua produzione, la immaginiamo quindi intenta
a raccontare il nostro destino. Quello che ci accade, quello che ci sfugge,
che ci fa soffrire, quello che ci fa sognare. Vorremmo che raccontasse
tutti i nostri giorni, che con la sua tenerezza, il suo amore sottile
prendesse nelle sue mani delicate ogni goccia del nostro vivere. Che fosse
la nostra bella memoria, questo vorremmo.
Vorremmo
che un giorno, senza sapere come, un frammento della nostra esistenza
che sembrava perduto per sempre, potesse di nuovo brillare davanti ai
nostri occhi, sommergerci di gioia come allora. Per un attimo tutto sembrerà
tornare, e il nostro tempo avere finalmente un senso.
Noi
sogniamo un arte diffusa, popolare, che fiorisce e si disperde nella comunità
che la produce, dove gli artisti sono considerati una ricchezza di cui
essere orgogliosi, perché essi rappresentano il punto in cui la
comunità si esprime, si apre, dischiude nuovi orizzonti. Come una
rottura della trama chiusa, come una sorgente nella roccia, una mammella
da cui sgorga latte per tutti. Essi andrebbero protetti, salvaguardati,
sostenuti, qualsiasi cosa essi producano, perché già credere
di poter dire qualcosa, già il sentirsi investiti da questa responsabilità,
è un atto di grande coraggio, perché esporsi è una
scelta difficile, rischiosa, fatale.
I
folli sono vicini agli artisti, perché anch’essi sono un
punto di rottura del tessuto sociale ma senza più parole, linguaggio,
racconto condiviso. Come se stavolta nella trama si aprisse una ferita,
essi sono l’effetto più tragico della nostra incapacità
di aprirci all’altro, e all’altro dentro di noi soprattutto.
E nel loro immenso, lancinante dolore di non riuscire più ad amare
ed essere amati, nel non potere più partecipare non solo di quella
degli altri ma persino della propria vita, essi gridano, gridano l’inarticolato,
ciò che non si può più comprendere.
L’arte
cerca le parole (oppure colori, gesti, suoni) le assembla, ne conia di
nuove; costruisce discorsi, racconti, come fanno i buoni falegnami con
le loro sedie, per provare a rappresentare l’esperienza che viviamo
nel presente, perché se ne serbi in qualche modo la memoria.
Anche la follia è alle prese con la stessa urgenza, ma essa annaspa,
si dibatte, brancola nel buio senza mai riuscire a trovare una via d’uscita.
La follia denuncia l’esistenza di una solitudine senza scampo, dove
non si è più in grado di offrire o ricevere una mano, un
sostegno, un sorriso. Essa continua a narrare, senza le giuste parole
ma con drammatica evidenza, l’insondabilità e l’enigma
del dolore individuale. I folli ci insegnano l’umiltà di
fronte alle forze che scuotono l’esistenza, ecco perché li
rifuggiamo, li segreghiamo, li abbandoniamo: ci ricordano sempre che anche
noi siamo come loro: deboli, inesperti, inermi.
L’arte
e la disperata follia: siamo sempre noi, le comunità delle donne
e degli uomini, che produciamo due effetti per soddisfare la stessa esigenza
vitale: il bisogno di condividere, la necessità di comunicare,
la voglia di gridare: qui, proprio ora, io sto vivendo, e insieme a me
tutto muore, spandendo intorno una luce di bellezza.
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